Dell'interprete aruspice

IA, ambiguità e l’arte antica del vedere segni nel nulla

Nel mondo antico, l’aruspice era colui che leggeva le viscere degli animali sacrificati per trarre auspici. Nella Roma repubblicana, osservava il fegato, le curvature, le anomalie, e da quelle forme carnali produceva significati, decisioni, direzioni. Gli àuguri invece guardavano il cielo: lo stormo, il volo, le linee disegnate dagli uccelli nell'aria. In entrambi i casi, non era il segno in sé a contenere un messaggio, ma l’atto dell’interpretazione a fare del segno un evento.

Con l’avvento dei modelli generativi di intelligenza artificiale, ci troviamo in una condizione analoga. ChatGPT, DALL·E, e affini non emettono messaggi nel senso umano: producono sequenze probabilistiche altamente verosimili, ma prive di intenzione. Non affermano nulla. Non credono a nulla. Non sanno nulla. Eppure, quando leggiamo le loro risposte, ci comportiamo come aruspici moderni: cerchiamo forma nel caos, intravediamo coerenza, estraiamo significato.

Una frase generata da un linguaggio statistico non è ancora un testo. Diventa testo solo quando qualcuno la legge come tale. In semiotica, diremmo che il segno è tale non in virtù della sua emissione, ma della sua capacità di essere interpretato. Ecco perché l’utente di IA non è un semplice consumatore: è interprete attivo, è sacerdote, è decifratore.

Questo spostamento di funzione è cruciale: perché ci costringe a smettere di cercare l’etica nel codice e iniziare a cercarla nell’uso. La responsabilità della generazione non sta solo nell’algoritmo, ma in chi lo interroga e soprattutto in come decide di credere alla risposta.

L’aruspice non pretendeva che il fegato parlasse. Ma sapeva che in quel gesto, in quella lettura, nel voler vedere un destino, si giocava qualcosa di profondamente umano. Oggi, davanti all’IA, siamo nella stessa posizione. Guardiamo stormi di parole, forme di codice, intestini sintattici. E ci diciamo: forse, se li guardo abbastanza a lungo, ci vedrò qualcosa.

La macchina non è un profeta. Ma può diventare specchio del desiderio umano di vedere senso dove non c'è autore.

Ed è lì, esattamente lì, che comincia il rischio. E la magia.

Postilla etica: tra il gesto e la fede

L’atto interpretativo, oggi come allora, è un esercizio di potere. Non solo perché chi interpreta sceglie cosa vedere e cosa ignorare, ma perché ogni interpretazione può diventare prescrittiva. Se leggiamo in un testo generato dall’IA un segno, un indizio, una verità, siamo pronti a credergli? A condividerlo? A basare decisioni su di esso? Là dove l'aruspice consigliava di rinviare la battaglia, oggi l'utente può decidere di replicare, pubblicare, agire. In questo senso, la responsabilità non è solo nella lettura, ma nella sua conseguenza.

Si sono fatte guerre e stragi per un’interpretazione degli àuguri. Non perché l’uccello avesse detto qualcosa, ma perché qualcuno lo ha creduto, e qualcun altro ha agito. Ogni segno ha un peso che non dipende da ciò che significa, ma da ciò che scatena.

Così, la domanda etica diventa: fino a che punto è lecito interpretare ciò che non è stato detto, e attribuire intenzione dove non c'è volontà? E se il significato nasce solo al momento della lettura, può un gesto tanto fragile fondare azioni nel mondo?